E’ nel motto “dentro da un orecchio e fuori dall’altro!” con cui Anita e Maria rispondono alle provocazioni di chi le vorrebbe sempre perfette che vedo la lampante, ironica, compassionevole accettazione della clamorosa imperfezione delle nostre vite.
È inutile dibattersi nel tentativo illusorio di far andare tutto come ci aspettiamo che dovrebbe andare. Nel mondo della “realtà”, come scrive Woody Allen nel film Whatever works, …“basta che funzioni”. Se in una donna emerge un senso nuovo, più allargato, di se stessa e della propria famiglia; se si scopre invincibile e si spoglia del superfluo per far emergere l’essenziale dalla propria vita e dai propri rapporti…
Vi sembra forse che non funzioni ? Che queste due donne si siano passivamente arrese all'imperfezione? A me pare, piuttosto, abbiano fatto pace con il loro senso di inadeguatezza, o con l’idea di perfezione, e questo ha dato loro fiducia in se stesse e forza entusiasta di costruire una vita ricca di gioia e soddisfazione.
Alla luce di questi racconti, mi chiedo come guarderemo l’imperfezione e l’errore? Sono ancora un tabù? Sono ancora così tragicamente inutili, o l'iniziale provocazione di Alex (parte I), comincia a svelare un senso?
Forse, gli occhiali nuovi che vi esortavo ad indossare consentono di cercare un nome diverso con cui connotare "Signora Imperfezione". Personalmente, vedo Anita e Maria come due portavoce di una accettazione consapevole e serena di se stesse e della quotidianità (parte II).
Violentemente coscienti dei limiti propri e della vita, sanno anche gestire questa "imperfezione" con allegria e savoir faire. Non osservano l’errore, ma il senso che porta.
La loro premessa è quella della sopravvivenza, della concretezza, per cui non vedono più il difetto come un ostacolo, ma come un’informazione che si può gestire; una posizione da cui guardare al mondo con occhi nuovi; una risorsa attorno alla quale è necessario costruire nuove regole e nuove mappe.
E se accettassimo l’idea che regole e metodo aiutano a costruire senso, identità e valore attorno all’oggetto osservato? Che ne sarebbe dei nostri temuti limiti? Una cosa è certa: dovremmo fare i conti con noi stessi; farci domande nuove; trasformare l’energia che investiamo per lamentarci in una strategia per affinare gli strumenti a nostra disposizione per interfacciarci con la realtà.
Sarebbe sicuramente faticoso. Ma se tutto ciò funzionasse? Forse, come diceva C.G. Jung, "Uno non diventa illuminato immaginando figure di luce, ma rendendo conscia l'oscurità".